Andiamo tutti … In Basilicata

27 Settembre 2013 /  Off comments

E se il mangiar sano fosse l’atto “d’amore” più concreto e piacevole per salvare il pianeta?
Il filosofo tedesco Ludwig Feuerbach diceva che l’uomo è ciò che mangia.
Al di là degli aspetti più o meno ambientalisti della questione, il modo di mangiare nel mondo globalizzato è uno degli argomenti più dibattuti all’interno della società contemporanea.
Il fenomeno della globalizzazione è infatti ormai giunto al suo picco massimo e gli effetti da essa prodotti, nel bene e nel male, sono sotto gli occhi di tutti. Se da una lato la diffusione sempre crescente di strumenti, materiali, tecniche, abitudini e logiche su scala mondiale ha abbattuto distanze prima considerate incolmabili, dall’altro verso ha prodotto un’ omologazione culturale forse mai registrata prima.
L’estensione a livello planetario di un modello unico di economia come quello capitalistico ha comportato via via un senso di estraneità nei confronti del prodotto locale, agendo sulle pratiche quotidiane più ovvie dei consumatori come ad esempio la scelta dell’alimentazione.
Infatti la presenza sempre crescente delle grandi reti di distribuzione alimentare nei piccoli territori ha comportato un notevole indebolimento delle filiere agroalimentari locali, impedendo nei casi più estremi proprio ai potenziali fruitori del posto di poter conoscere i prodotti di casa.
E la Basilicata, dal canto suo, come può promuove se stessa e i suoi piccoli comuni?
Probabilmente donando un’impronta di unicità alla sua filiera agroalimentare, esaltandone la qualità e la compatibilità ambientale.
Non bisogna dimenticare che il 70% degli oltre 8.000 comuni italiani conta meno di 5000 abitanti, caratterizzati dalla presenza di piccole e medie imprese, non già da grandi clausters industriali, che pure sono presenti in alcuni territori. L’economista e filosofo francese Serge la Touche con le sue otto R (rivalutare, ricontestualizzare, ristrutturare, rilocalizzare, ridistribuire, ridurre, riutilizzare e riciclare) suggerisce un modo differente di pensare il modello economico globale, promuovendo una nuova forma di “localismo”. Si può infatti sostenere una produzione locale anche su larga scala, sfruttando le infinite potenzialità che la rete offre per abbattere le distanze geografiche e culturali che caratterizzano e dividono i luoghi, senza per questo rinunciare all’identità del prodotto.
Una valorizzazione mirata delle specialità locali produrrebbe un circolo virtuoso a partire da un minor dispendio di risorse ed energie per la produzione, che inevitabilmente ridurrebbe gli impatti ambientali e quindi l’inquinamento. “Mangiare locale” non è solo uno stile di vita, ma anche un modo di portare i consumi ad una dimensione più ecocentrica, riscoprendo i cicli naturali della stagionalità con un ottica più consapevole.
A promuovere questo tipo di approccio ha contribuito in gran parte il movimento internazionale Slow Food, nato a Bra nel 1989, che vede fra i suoi principali promotori Carlo Petrini, fondatore dell’associazione omonima.
La nostra regione ad esempio possiede 4 presidi Sloow Food: il Caciocavallo podolico della Baslicata, il Fagiolo rosso scritto del Pantano, l’Oliva infornata di Ferrandina e il Pezzente della montagna materana.
Ma ci sono numerosi altri prodotti che identificano il nostro territorio registrati sotto altre tipologie di marchio, basti pensare ad esempio al fagiolo di Sarconi e al Canestrato di Moliterno entrambi sotto l’indicazione IGP e ancora: i peperoni di Senise, quelli di Satriano, le percoche di Sant’Arcangelo, ovviamente citarli tutti diventerebbe davvero dispendioso.
I presìdi alimentari hanno l’obbiettivo di sostenere le piccole produzioni eccellenti che rischiano di scomparire, valorizzando i territori e recuperando mestieri e tecniche di lavorazione tradizionali, salvando dall’estinzione razze autoctone e antiche varietà di ortaggi e frutta.
La Basilicata può creare una rete tutta lucana che intercetti produttori, enti agricoli, cuochi, consorzi e istituzioni locali al fine di lanciare un unico marchio lucano che includa al suo interno tutti i prodotti tipici della nostra terra, facendo della compatibilità ambientale il proprio stemma distintivo.
Un “sistema di filiera” gestito in situ infatti non comporterebbe la necessità di importare imballaggi che, al contrario, potrebbero essere prodotti localmente con materiale esclusivamente riciclato, che rispecchi il risultato di un’azione combinata di qualificazione ambientale e produzione del territorio.
Perchè la tradizione non incatena, ma conduce oltre.

Fabiana Santangelo

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